"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
"If I think about the future of cinema as art, I shiver" (Y. Ozu, 1959)
La superficie è l’orologio, colmo di led, tendente all’infinito o a Moebius come all’ossessiva chiusura di uno spazio irreversibile; un caos del flusso dei pensieri ricalibrato sulla filosofia del nulla. È il Big-Bang (o il bug) del digitale, il momento in cui la conversione sarà compiuta, il punto di partenza per Isiah Medina nella sua vorticosa razionalissima deriva, sulle classi, sulla povertà, sulla contemporaneità, sul movimento, sul baratro, sull’inconscio del reale. Il cut diventa improvvisamente arma eterea e trasformativa, invisibile come tutti coloro che stentano a sopravvivere nel vortice truce del terzo millennio; le immagini sbocciano in un flusso d’integrazione della nuova soggettività tecnologica, fusione di ogni codice, formato e supporto. La narrativa è affidata alla documentazione (al rapporto tra i due amici che lo stesso Medina condensa prima in ritratti e poi in monologhi), ogni fotogramma ed ogni suono sussiste a se stesso perchè continuamente scorporato dal contesto, ma parte del dis-ordine della vita tra politica, amore, scienza e arte. Lo spazio politico del cinema allora non è altro che l’atto dello scarto umano al codice binario, del ciò che ancora sfugge. Esistere necessita l’autodeterminazione, e se il nichilismo della determinazione esterna a noi stessi pare definire il segno di un’umanità distante e di una era che si chiude, è il momento di aprire nuove strade, di tentare nuovi esperimenti. Proprio come fa questo 88:88.
Il flusso è indefinibile e strutturato sull’addizione simbolica di fotogrammi, tendente all’infinito come alla reiterazione, in cui lo spazio del reale si struttura nella definizione sempre diversa dell’intervallo. Il mondo sopravvive e si incunea nello spazio tra zero a uno, come tutto lo spettro dei colori si determina tra il nero ed il bianco. Ci sarà sempre qualcosa che resta fuori dall’inquadratura o che viene tagliato al montaggio, sta alla soggettività trovare un ordine o almeno restituire una libertà nelle associazioni. In un’epoca in cui siamo costantemente riflessi e ripresi in immagini, la separazione suono-immagine risponde e coincide a quella della realtà, la stessa tra due persone; la definitiva messa in dubbio dei sensi attraverso strumenti linguistici del mezzo resi antropomorfi. Il dubbio e la ragione nel separare ciò che apparentemente è (col)legato, regolano continuamente il rapporto soggetto/predicato/oggetto formando la stessa frattura in cui nasce il cinema ed in cui esso possa esperire una nuova forma cartesiana di prova dell’esistenza.
88:88 cerca essenzialmente se stesso in una serie infinita di segni (filosofici e matematici soprattutto) in cui il cinema costantemente si interroga sul proprio statuto, partendo dalla vita nuda, dal materiale sedimentato nell’anima di un gruppo di ragazzi oggi, attraverso una continua sintassi di base dell’immagine nel/per il futuro. Un film che è a suo modo pieno di errori, un esperimento sempre sull’orlo del fallimento, un’odissea che ambisce a far vedere esattamente ogni cosa che vedremo, segnando al tempo stesso grammaticalmente il punto zero su cosa il cinema potrebbe essere, o almeno quanto e come potrebbe ancora essere. Probabilmente è e sarà altro ancora, anche rispetto al lavoro teorico di Medina stesso, perchè l’intimità è reale, strappata alla vita nel margine tra la frustrazione e la tristezza. L’immagine, nella sua continua rifrazione digitale, distrugge il codice per restituire l’atto dell’esistere. E così anche il digitale nelle sue continue ellissi d’umanità, pare aver trovato la sua dignità, per una delle primissime volte. Lo spazio è colmo, il tempo è definito. Suonerà la sveglia dell’infinito, dobbiamo scendere in strada e ritornare a guardare.
Film di otto ore proiettato su schermi disposti in circolo, ognuno dei quali ne rimanda uno spezzone differente che s’interrompe per lasciar spazio a un altro, scelto secondo un ordine casuale, diverso da quelli proiettati sugli altri schermi: forse ha poco senso chiedersi cosa Singularity sia, se film o videoinstallazione o altro, dato che il suo senso sembra porsi non tanto nel suo essere quanto nel suo farsi, nel movimento fluttuante e vorticoso che circonda lo spettatore da parte a parte, come in un abbraccio. (Del resto, qual era per de Oliveira la "singolarità di una ragazza bionda" se non quella, appunto, di non essere, per farsi pura figura, immagine fantastica, ricordo di un sogno, riflesso del desiderio; e in questa molteplicità di attributi intangibili – molteplicità slegata da tutto tranne che dallo sguardo del suo amante-osservatore che le conferiva esistenza – si affermava la sua impossibilità a cristallizzarsi in una forma unica, singolare).
Ma al contempo c’è la sensazione che, nel passaggio delle immagini da uno schermo all’altro, qualcosa si perda negli spazi vuoti fra gli schermi, o che il film continui a essere proiettato sul nero interstiziale, invisibile ai nostri occhi, come se volesse sottrarsi. La singolarità si dà proprio nella sottrazione, nel venir meno di uno spazio, di un legame, di un’affezione che leghi i corpi, i significanti, le immagini. Ecco quindi spalancarsi una voragine dinanzi al nostro sguardo, e prendere le sembianze di una miniera d’oro, esemplare oggettivazione della tensione tutta occidentale a esaurire tutto ciò che è in superficie per poi, insaziabilmente, scavare il nulla – il nulla della fine della storia, dell’insensatezza della produzione capitalistica, della mancanza di senso nel linguaggio.
L’investigazione nomade di Serra pare trovare nell’eclissi del sacro l’origine di questo vuoto e tocca le tracce della sacralità perduta – la gloria dell’oro, la santità delle puttane, il mistero del disfacimento del corpo e della materia, l’aspirazione a perdurare oltre la consumazione e il decadimento, l’amore omosessuale, o gerontofilo, in pura perdita – ma il suo tocco è una delicata carezza, come a voler sfiorare le immagini con gli occhi, ben sapendo che la paura mangia l’anima (ci sono tutti qui, Fassbinder, Syberberg…). Nello schermo che introduce Singularity viene proiettato una sorta di trailer, una selezione di alcune immagini del film, con l’aggiunta, in sovrimpressione, di un drone che sembra mimare questo gesto carezzevole: la macchina guarda ma non giudica, scivola sulla superficie del mondo senza violentarla e si limita a rifletterla in immagini. E le immagini sfuggono a tutto, al nostro giudizio, alla staticità di una qualsiasi definizione dell’essere, alla mummificazione in categorie ordinatrici. Possiamo cercare di inseguirle, senza ovviamente raggiungerle: ma in questo moto, nella ricerca di un’immagine che sia rimando a un qualcosa al di fuori e al di là di noi, possiamo trovare una singolarità altra, e sentirci meno soli.
Un «cinematic territory», lo definisce Kamal Aljafari. Una stratificazione di spazi e tempi nella dis-installazione del passato e del presente, nella rivendicazione - muta, silenziosa, al più sussurrata - di un tempo e di uno spazio espansi che non siano altro che quelli del cinema, della sua memoria e dei suoi luoghi/set ri-collocati da un occhio ri-filmante in costante ri-posizionamento all’interno dei fotogrammi. Accade in Recollection, nella sua forma più pura, ovvero contaminata, testo di approdo del lavoro del filmmaker palestinese. Film, cinema, che cerca una sua collocazione fuori/dentro uno schermo, ritorno alle origini, esperienza onirica, sensoriale, tattile. Toccare con l’occhio i muri, le pietre, la polvere, i fili dell’elettricità così sospesi e ricorrenti a di-segnare ulteriori traiettorie nel corpo dell’immagine, gli oggetti, le rovine di ambienti senza nome (si tratta di Jaffa, ovvero di qualsiasi posto devastato dalla storia nel mondo o ri-scritto dal passaggio del cinema - ma non è poi così indispensabile conoscere il pre-testo, vale a dire rimuovere dalle immagini anche attori dei film di guerra girati nei decenni passati in quella città, che ha portato Aljafari alla realizzazione di Recollection). Bisogna lasciarsi bagnare (non per nulla il film si apre sulle onde e sul mare) dal flusso visivo, toccando anche i suoni, i rumori, le voci che dialogano con immagini che non appartengono loro, in un sincrono/fuorisincrono che amplifica la domanda, la curiosità, rinviando all’infinito la risposta: da dove provengono quelle immagini?
Si cammina dentro esse. C’è, in Recollection, la concretezza dei fantasmi, la concretezza del camminare nelle immagini, dei ‘passi-sguardi’, dei loro inciampi e delle loro soste (dei piedi e degli occhi, per lampi di montaggio o di andature deambulanti cercando dettagli da isolare penetrando il corpo dell’immagine), del procedere come in un luogo sacro di memorie dove si entra in punta di piedi. E il viaggio porta proprio in una chiesa, mentre dei passi fuori campo invitano a compiere fisicamente quell’esperienza soggettiva. Così come un altro rumore, come di qualcuno che scava/picchia con uno scalpello, entra poi in campo, ma negando ancora una volta la sua provenienza. È, nella sintesi estrema, il segno, il gesto poetico di Aljafari, che scava in ogni fotogramma, ri-modella, cancella e mostra; manipola immagini in un inserto creando un mosaico da sdoppiare, moltiplicare che fa venire in mente le tavole di Rorschach; fa ripetere, nel montaggio, una camminata, un gesto alle figure anonime (infine, forse, individuate nel poema intimo scritto dal regista al termine del film) che transitano nelle inquadrature, esprimendo, lì e altrove, il senso e la concretezza di un passage à l’acte interrotto e ripreso.
Film-approdo, Recollection, che ha i suoi germi in altri lavori del regista, The Roof (2006) e Port of Memory (2009). Perché il cinema di Aljafari è fortemente politico sempre partendo dall’esperienza personale, dalla soggettività. Quel che in Recollection, dal punto di vista della/e memoria/e familiare/i (la famiglia, esule nel 1948, si fermò a Ramle, quella paterna, e a Jaffa, quella materna), non viene spiegato, aveva infatti trovato narrazione in quei testi precedenti, già fondati - oltre che sulle testimonianze di parenti e altre figure in uno sminamento del documentario e della finzione, che sarebbe approdato a uno sminamento delle immagini stesse in Recollection - su alcuni elementi per Aljafari imprescindibili: la persistenza dei muri filmati; le case e la questione delle abitazioni sottratte ai palestinesi; certi luoghi di Jaffa usati in Port of Memory le cui immagini sarebbero state ri-usate identiche in Recollection; e sempre in Port of Memory squarci di film guardati in televisione che diventano a tutto schermo - non a caso testi come Deltaforce 1 e Deltaforce 3 con Chuck Norris, espressione di quel cinema hollywoodiano made in Golan e Globus che sarebbe stato cancellato in Recollection.
Le ossessioni di Kamal Aljafari sono magnificamente resistenti. In opere dove il gioco della memoria e delle fonti stratificate costituisce una re-collection anche del/nel/dal cinema del regista.
Entrare nella notte e trovarsi al centro di un istante. In Now di Chantal Akerman è il QUI assoluto che ci sconvolge, è il qui e ora che ci afferra e ci porta più in là, nello spazio buio dove la velocità della visione (o delle visioni) ci trattiene. Cinque schermi sospesi in aria al centro di una stanza che riprendono fughe, linee perse all’orizzonte, dileguamenti visivi che non segnano un percorso ma impongono dispersioni. Sembra quasi un contraddirsi, ma la Akerman ci spinge in avanti senza indicazioni per portarci oltre il bordo, alla deriva o più in là, nel falsotracciato , nell’altro verso del cinema.
Si scosta la tenda come una palpebra pensando che solo lo sguardo possa aprire una visione (la visione che è palpazione con lo sguardo, direbbe Merleau-Ponty e questo basterebbe a toccarla), ma la trama allarga i propri confini ed è allora che tutto il corpo si muove, nello spazio. Non si tratta di contemplare lo schermo (anzi, gli schermi) per una visione passiva, ma di penetrarlo, quasi sfiorarlo nella fuga di orizzonti imprimendo una certa pressione nell’aria che sembra mancare di staticità e si sposta con noi nel vuoto; farci mobili nella mobilità delle immagini, costringerci a transitare più in là ancora, da uno schermo all’altro, di soglia in soglia e trovarci nell’intermezzo, in quel tra che è un viatico, medium oscuro, nell’insorgenza delle immagini. Sembra quasi che il cinema, questo luogo privilegiato di scontro frontale sguardo-visione, non basti più a sorreggere tutto l’impianto stratificato di un’immagine - edificazione di uno sguardo - ma, in Now, essa ci investe interamente tanto da pensarla fuori da un unico quadro, dal campo del quadro per ritrovarcela ovunque intorno a noi, investiti anche dal fantasma del suono, perché è nel passaggio da uno schermo all’altro delle immagini che la visione prende forma, è in quello spazio vuoto che noi diventiamo ombre buie, vaganti e perse con gli occhi infranti, incapaci di posare l’occhio su quell’attimo frugale che è l’epifania di una visione. L’adesso (Now) non c’è mai perché è già passato, l’immagine passa, scorre ed è già fuori perché lo schermo non è abbastanza, ci vogliono più schermi, il luogo stesso del cinema è anche, ora, fuori dal cinema stesso; non c’è approdo per l’immagine perché non c’è casa, non esiste il luogo che ora diventa punto cieco, ma c’è l’urgenza di scavalcare la distanza che ci separa da questo flusso ininterrotto, migrazione continua lungo orizzonti indefiniti. E la messa in scena diventa messa a punto di supporti sempre nuovi, di terze dimensioni (pensiamo a Godard, Scorsese o all’ultimo Zemeckis) e, ritornando alla Akerman, di nuovi territori (deserti) espressivi che vorrebbero inabissarci nell’interstizio informe della materia che manca continuamente al nostro sguardo: l’eterna incompiutezza di una veduta. Quello che la Akerman sembra chiedersi mentre fugge via con lo sguardo lungo paesaggi completamente vuoti, assenti, è cosa sia il cinema se tutto oggi è cinema, se non sia necessario invece destrutturarlo una volta per tutte e ritornare a cercarlo.
Chi (Mr. Zhang Believes) del cinese Jiongjiong Qiu è ulteriore, eccedente conferma di un cinema che riflettendo sulla stringente, ottusa contingenza (nelle cui pieghe si sedimenta l’enunciato politico, civistico, etico), non può fare a meno di riflettere su se stesso, sulle proprie possibilità di essere rispetto al tempo; di riflettersi come dispositivo di inerzie, attriti, parvenze che trovano linfa nella storia (verso cui cerca la massima rispondenza), pur destrutturandola in eco, cicaleccio, intreccio di scene riverberanti (di oscurità e voci, canzoni) in un teatro di posa, quale luogo di composizione ed elezione dell’opera, cioè una sorta di “gioco del mondo”. Wang Bing, quello, mettiamo, di Jiabiangou, è stato metabolizzato nell’ibridazione del quadro, di cui Jionjiong Qiu conosce i dis-limiti (Bressane), venendo dall’arte figurativa, qualcosa come “aprire un dissipario per l’arcano” (De Barros), la funambolica fenomenologia di palcoscenici che rimandano uno all’altro compenetrandosi strettamente eppure slegandosi e aprendosi come voragini fuori dal tempo. Anzi, un soqquadro, accostando la mimesi di un acciottolato, il suolo permeato di un’acqua di pece, con lo scenario più artato, costruito, che rivela la sua manifattura, dando proprio per questo profondità simbolica alle immagini, montate secondo un meccanismo di drappi, tendaggi astraenti gli sfondi (storici), a fare da contrappunto a sequenze documentali in cui Zhang Xianchi racconta il suo calvario iniziato nel 1957 con l’accusa di essere un reazionario, ma in effetti già agli inizi degli anni ‘50 (stesso periodo mostrato da Jiabiangou), quando ancora studente e intriso di letture comuniste, si scontra con suo padre, filogovernativo, fuggendo di casa.
Qui l’ipertensione delle immagini, tese nei movimenti acuti, finti delle sagome sul proscenio (un espressionismo di bianco e nero catramoso, che intacca anche i siparietti ironici), si allenta nella naturalità di Zhang Xianchi che di fronte alla macchina da presa racconta la sua vita, per divenire stasi contemplativa e dolente di fotografie poste sulla ghiaia, o quadro nero, Nulla, su cui scorre la voce del protagonista: un amalgama di materiale composito che si declina di volta in volta intorno ai limiti fisiologici dell’immagine cinematografica tentandone il tessuto fantasmatico, inerziale, e l’origine (destino) di fissità, per “aprire il dissipario” (questa sua irriducibilità), come avveniva nell’Erice di Centro Historico o nell'Immagine mancante di Rithy Panh in cui il contrappunto (dialettico, riflessivo, retroattivo) al movimento era dato da riprese su presepi popolati da statuette di creta.
È questa oscillazione, questo movimento a strappi della macchina-cinema, nella nebulosa della materia temporale, a dare senso, pur nel dissesto, a Mr. Zhang Believes, tra fughe in avanti e retrospezione sul proprio nulla; e non è un caso che una delle sue apparizioni la chiami “tempesta di nuvole”: una fitta nebbia verde, in cui la Storia si perde, restando solo un’eco nel buio, uno sgocciolare, uno scricchiolare d’assi, inveterato.
Ancora una volta è Jean-Marie Straub, giustamente duro e giustamente caustico, a ricordarci che dopo l’era della riproducibilità tecnica, l’unico modo per avvicinare ciò che chiamiamo arte è nella non-riproducibilità (Renoir, sempre Renoir), cioè forse in uno spazio, tanto resistente quanto misterioso che si installa fra parola e immagine e il cui nome è lingua. Nuovo titolo: l’opera d’arte nell’epoca della sua ricerca di una lingua. Lingua significa qualcosa impossibile a dirsi diversamente se non come tale, la quale anzi, se fosse o se ambisse a diventare un linguaggio, se avesse intenzioni rappresentative (o, peggio, artistiche), sarebbe una lingua (e infatti oggi lo è sempre più) già del tutto compromessa.
Ecco allora le forze in campo: sceneggiatura come colata grafica, l’immagine come partitura della partitura, memoria puntigliosa del lavoro quotidiano, il cineasta che diventa pittore e musicista, il film come campo di battaglia che include due, tre, quattro versioni del film stesso (perché “Il n’y a pas une meilleure prise”). Oppure, semplicemente, il film installerà parte di sé. Come? Chiedendo a uno come Amir Naderi, che di scenari multiversi se ne intende, di andare a rifilmare ciò che rimane dell’ultimo rullo di una copia del MoMA di Lezioni di storia (con il dialogo da Gli affari del Signor Giulio Cesare di Bertold Brecht, quello dove risulta chiara non solo la natura truffaldina delle italiane genti, ma forse proprio la truffa insita, o il rischio di tradimento connesso all’intenzione artistica in sé). Dove? In una casupola, che sembra una cosa a metà fra una cappella e una cabina di proiezione, posta all’entrata del padiglione italiano della Biennale Arte 2015, aperta da ogni lato (perché in una sala cinematografica si può entrare, ma anche uscire), e in cui al loop del rullo in fin di vita o vivo per miracolo, fra salti della pellicola e definitivi scioglimenti del colore, risponde la recinzione sonora dei materiali (il dialogo brechtiano nell’originale tedesco) e quella visiva delle riproduzioni del testo lavorato alla loro maniera da Straub e Huillet.
Il problema, è chiaro, di questo Omaggio all’arte italiana! (prodotto dalla neonata Zomia di Donatello Fumarola e Alberto Momo insieme a Belva Film e Atelier Impopulaire) non è disquisire su cosa sia arte e cosa no, ma di ricostruire la nervatura del lavoro materiale e testuale del cineasta (compresa la successiva possibile degradazione, la quale ha a sua volta a che fare col supporto e col supporto del pubblico), ricostruirla fino a ridarne la cadenza profonda, conquistandogli quello spazio che, d’altra parte, ne è il carattere.
Allora, questo spazio, è ancora lo spazio del testo, o qualcosa di completamente inedito? E cosa rimane del cinema? Può addirittura partecipare al rischio atmosferico connaturato al filmare stesso? Può essere ancora come la nuvola, come il colpo di vento, come il sole? Può essere il colpo di dadi? Non è in fondo il testo, una volta, per così dire, estratto e ridotto all’essenziale, il luogo verso cui si deve ritornare, certo molto cambiati, ma sempre tesi al reperimento della materia all’origine? Come diceva Danièle Huillet: “È un dettaglio… ma non ci sono dettagli!”.
I get to watch Jasmina Metwaly and Philip Rizk’s Out on the street (Barra fel shari', 2015) in a post-revolutionary summer in Cairo. Tahrir Square is few miles away. I can just imagine the sound of the silence coming from down there: the silence of the everyday life that seems to be back on track. Today, out on the streets of Cairo there’s nothing than just the usual chaos of a megalopolis’ daily routine emptied from the imprévu once brought by a different kind of chaos, that of the revolution. Yet Out on the street reminds me that things never sleep in Cairo, not even the revolution.
A group of working-class men is invited on a Cairo rooftop to join an acting workshop aiming at staging a mise-en-scene of their factory and the power dynamics revolving around it. Police brutality, corruption, abuse of power, exploitation of the workers by their employers, threats of loosing jobs and being put out on the street: everything emerges during the rehearsals, everything is filmed by Metwaly and Rizk’s discreet camera. Quite soon the space of fiction given to the workers to recreate their daily struggle turns into a real space. Once being understood, the mechanism of exploitation is replicated and reproduced by the workers on other workers, as if it were the most natural thing: the mise-en-scene of the abuse becoming the abuse itself. Like in the hall of mirrors, exploitation is exercised from capital on the worker, and from the worker on another worker, and then on another worker, too. The filmmaker is there to witness and document, but has also to join the struggle.
This reminds of another factory, another time, another class struggle. France, 1972: Jean-Luc Godard and Jean-Pierre Gorin had just filmed Tout va bien, a caustic account of a strike at a sausage factory. At the time, Godard said in an interview1 that he was interested in looking at the social forces simultaneously at work in the same physical space: capital, the working-class, but also the leftists, the engaged intellectuals. One of Godard and Gorin’s main focus in Tout va bien was, in fact, the role of themselves as filmmakers in narrating the workers’ struggle and finding ways to support it. That is why Tout va bien is not so much a film about a workers’ rebellion against capital; rather, it documents the efforts of two engaged intellectuals in approaching this very struggle through cinema. How do we turn a revolution into a filmed image, into a spoken word, without having that same image, that very word betraying the revolution itself? How can a representation not violate the thing represented?
In the aftermath of the 2011 uprising, Metwaly and Rizk, who are members of the media collective Mosireen, raise this question again by asking the Egyptian workers to be their own metteurs en scene. Visually the film mixes together different sources of material (fictional performances taken from the acting workshop, interviews with the workers, personal mobile footage shot by a former factory employee). But what really blurs the line between factual and fictional, between the representation and the thing represented is the workers’ own mise-en-scene of their working condition, of the exploitation they are exposed to which they unconsciously get to replicate. Godard’s words in 1970s France resonate in 2010s Egypt: “the very medium we use was, up until now, in the hands of those we're fighting right against. Therefore, despite our good intentions, we don't completely control it”.
There were millions of cameras switched on the Egyptian revolution in 2011. The medium was in the hands of the people: yet, who controls the images of the revolution once they are generated? Who keeps them, preserves them, and makes use of them?
“Who directs today in France, who is the metteur en-scene” asked Godard in 1972.
“How dare we trade in images of resistance” asks Mosireen in Egypt 2011.
The charm of Metwaly and Rizk’s film lies in the question it raises about their own role as activists and filmmakers. It is as if they could not decide whether being with the workers and supporting the latter’s mise-en-scene to create a narrative of their oppression in order to counter-act the will of the exploiters to put them out on the street again, jobless and without dignity. Yet, at the same time, we feel that they would rather, as filmmakers and activists, be themselves out on the street, looking for the right image, for the right to the image. The one image that would not generate a cycle of “an industry of empathy”2, compassion, pity, solidarity with the revolution; but would, instead, drag more bodies out in the street.
2 Mosireen, Revolution Tryptich, p. 48 in "Uncommon Grounds: New Media and Critical Practice in the Middle Est and North Africa" edited by Anthony Downey, I.B. Tauris 2014
As the founding father of the Cinico TV, since the early 1990s Franco Maresco has been braiding together a cinematic chronicle of his native Sicily and, above all, hometown of Palermo, performing for his homeland the same duty documentarian Peter von Bagh served to Finland, or Želimir Žilnik to the former Yugoslavia and Serbia. This kind of history couldn’t be written without appeals to certain exemplary individuals, so Maresco’s latest, Gli uomini di questa città io non li conosco – Vita e teatro di Franco Scaldati, bears a dedication to Franco Scaldati, the grim theater director and playwright, "the Beckett of Palermo" who once reformed the language spoken on stage as he smuggled in the Palermo dialect along with the local color.
Scaldati’s body of work represents an act of relentless resistance both to the political degradation of his country and to the intellectuals’ comfortable partisanship. In the late 1970s, at the peak of political turbulence, he abandoned the social radicalism of his early plays for the pure poetry of Lucio, a tale of a naive philosopher who converses with the moon, which alienated from him the communist sympathies. Tired of being broke for years, neglected by cultural institutions, and relegated to basement venues, Scaldati at last found employment at Palermo’s major theater, Biondo, much to the chagrin of the bourgeois snobs craving a nonconformist poster boy. Be that as it may, there he remained a hired hand, unable to produce his own plays until the late 1980s when he finally managed to launch Il Piccolo Teatro, a company as independent in spirit as it was short-lived. In his later years, Scaldati almost gave up on his vocation and limited his public appearances to recitals of his new works, mostly comprising phonetic games. Perhaps disillusioned with the idealistic view on art’s global mission, he nevertheless continued to engage in direct activism: for over a decade, Scaldati ran an acting lab for at-risk youth. Rather than dream of "making a difference" with his art, or worry over the artistic results, he simply relished the experience of interacting with people who couldn’t fathom a life outside their bad neighborhoods.
I Don't Know Anyone in This Town is an especially personal and intimate project for Franco Maresco, who considered Scaldati, deceased in 2013, a friend, a teacher, and a mentor (last year he even put on a standard-Italian production of Lucio). Scaldati himself dabbled in acting appearing in several movies by the Taviani brothers and Giuseppe Tornatore, but it was Maresco who captured in full his penchant for comedy in The Return of Cagliostro. The principal ambivalence of I Don't Know... lies in the fact that on the surface, it looks like an ordinary documentary, as good as made for TV. One of the most truly singular filmmakers working today, Maresco chose to forego any kind of authorial voice or personal style, so the Venice audiences, by and large, dismissed the festival’s greatest masterpiece as a strictly provincial narrative handled too conventionally. What does it matter, though? After all, Maresco’s Scaldati, whose existence had almost escaped us but didn’t, is a much more compelling character than most fiction has to offer. Making someone exist – isn’t it as ambitious a task as today’s filmmaking can tackle?
Of course, just like Maresco’s masterful Belluscone. Una storia siciliana released last year, I Do’'t Know... tells a story of defeat - an individual’s, a country’s, art’s, Franco Maresco’s own. Only once did Scaldati enter the Biondo Theater through the main doors as his casket was carried inside to the sound of politicians rhapsodizing about "losing the living embodiment of Palermo’s soul." Two years later, Maresco comes to the theater to ask its audience members if they’ve ever heard of Franco Scaldati. No, no one has. However, the film’s epigraph perfectly encapsulates what Scaldati had to say on the subject: “Beauty is of the defeated. The future is not of winners, it is of those who are able to live”.
Il corpo dell’immagine. Ecco qualcosa che tutti cercano (o si immaginano, o sognano), ma che sfugge a qualsiasi defiinizione non supportata da esempi specifici. Eccone ben tre. Corti e cortissimi. Che, anzi, proprio nella forma breve individuano il piano inclinato in cui far convivere quel movimento compresso ed elastico, imploso e deflagrato che forse costituisce il misterioso corpo dell’immagine.
Insomma, si tratta di tracciare i confini di una nervatura invisibile, convogliare l’elettricità di un mutamento sussultorio e continuo, esporsi a una sovraesposizione accecante, ma allo stesso tempo tentare l’inserimento nella piega che scivola fra due ombre, in cerca della zona opaca, del margine insepolto dell’immagine.
Filmare l’infilmabile, ecco di che si tratta. Curiosamente, per tutti e tre i film, il punto di partenza di questa operazione impossibile restano i corpi veri e propri, un bilico necessario al ritrovamento di fisicità, flagranza, possessione. Per questo, come in Yolo di Ben Russell, quel che si pensa essere il proprio film, si scopre essere opera collettiva (filmata nel lontano Sudafrica con il collettivo Eat My Dust), un mash-up capovolto, dettaglio di un dettaglio filmato da altri e visto all’incontrario, a testa in giù. Il cielo al posto dei volti, facce al posto delle nuvole, dialoghi spezzati presi alla fine e in cerca dell’inizio, il centro celato di questa regione sconosciuta (ancora e sempre Michael Snow docet). E tutto come se fosse la prima e ultima volta, l’immagine dipanata in filigrana e insieme distorta, deragliata, un lampo filmato da uno, nessuno e centomila cineasti. “Oh humanity, You Only Live Once!”, così chiosa Russell.
Se poi i corpi sono nudi, allora l’astrazione avverrà sul corpo stesso della pellicola, lavorata in modo che perforazioni e penetrazioni, pelle nuda e pelle di celluloide, diventino un corpo unico, altrettanto insondabile, sonoro, eccitato e sovraesposto frame by frame, incollato e strappato, appunto surrealisticamente squisito (e qui Maya Deren docet). The Exquisite Corpus monta, ma sarebbe meglio dire cerca un ritmo, una sequenza inconsueta, nelle variazioni hard e soft core o di semplici film nudisti di cui viene estratto e manipolato il footage. Procede per immersione, comincia con un semplice film nudista e lentamente si avvolge su se stesso, fluido e vertiginoso insieme, riavvolto nella sua stessa grana, fino a filmare una sorta di erotismo della pellicola più ancora che i lampeggiamenti hard che si sovrappongono con veemenza fino all’accecamento (non so se Tscherkassky conosce Piero Bargellini, ma il riferimento non può non essere il capolavoro Trasferimento di modulazione).
Allora, cos’è più vero, il corpo umano o il corpo dell’immagine? Everson con It Seems to Hang On si avvicina al nucleo della questione facendo slittare il ritmo sovraeccitato e psicotico di due famosi serial killer (la cui storia è dunque vera) direttamente sulla struttura del film: singultante, asimmetrica, continuamente interrotta e raddoppiata, smarrita nell’ossessione, nella ripetizione, nel ghigno senza costrutto, rabbioso e impersonale. Loro uccidono, ma non vedono che così spazio e tempo prima si annullano e poi si incrinano, e alla fine non resta che un grido rivolto al vuoto. L’immagine è il suo stesso corpo separato, la ballata atonale di una spossessione.
Boy meets girl at the end of the world. Once again, Julio Bressane stages the beginning of life itself as a stylized and dysfunctional yet mysteriously minnellian dance. O Garoto, element of the collective project Telha brilhadora, that comprises also O prefeito by Bruno Safadi, O espelho by Rodrigo Lima and Origem do mundo by Moa Batsow, is a film that has at its core a mischievous insurgent sexual energy that bristles and sparks relentlessly poetic hybris. Those who are not familiar with Bressane’s work may be puzzled by the minimalistic approach and its reiterative patterns, but it is obvious that O Garoto (The Kid) is just a different kind of educaçao sentimental. The boy and the girl inhabit a world whose only other sign of life is a rhythm pattern that seems to be almost detached from them, even though they watch and listen amused to the silent musician who keeps drumming away. The other element is the camera itself. The sensual geometries of the film try to make this triangle work. The camera wants to make love with the bodies in front of it. But the gaze of the girl and the boy point out toward the wilderness, a barren yet intoxicatingly magnificent landscape. This impossible triangle tries to claim hold of the land. Make it again a land of the living. Or, at least, they try to survive in and on it again. Let’s rewrite the social contract for the very last time. As it happens with Bressane’s recent work, O Garoto also recalls elements and patterns from his previous films. These fragments of memories and echoes from a different time are the tools with which Bressane shapes his vision. His newfound Adam and Eve are the sign of a never ending quest. To regain the world, that is the problem. As in O gigante da America, the film is also an arcane and bewildering reflection on the results of colonialism. O Garoto is definitely Bressane’s song of exile. His Paradise Lost, if you want. Minus the angels and the devils. Minus god. There is no regenerative utopia here. The two are destined to be apart. And even though the girl tries to break the diaphragm that separates her from the boy and the camera and the audience (the most sublime moment of the film), she is on her own as is the boy. Bressane films the end of the world as a reenactment of the origins of cinema: a boy and a girl. One plus one. Where the plus sign is obviously the camera itself. A precise yet restless camera, that roams a never before seen landscape as if it were the ultimate set of the world. A world that still hopes to be filmed, seen, and experienced as such. Bressane thus offers the image of a filmmaker at the end of time and space. Looking for signs of life, Bressane comes up with a sensual dance that manages to rethink the Lumière brothers filmmaking in an utterly innovative way.